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Fibrillazione atriale non-valvolare e terapia anticoagulante per la prevenzione del ictus


La fibrillazione atriale è un’aritmia che convenzionalmente si divide in valvolare o non-valvolare; non esiste una definizione soddisfacente o uniforme di questi due termini.
Il termine fibrillazione atriale valvolare è correlato alla malattia valvolare reumatica ( prevalentemente stenosi mitralica ) oppure correlata a protesi valvolari cardiache.

La fibrillazione atriale si associa a un rischio di ictus cerebrale di circa cinque volte più elevato rispetto a chi non la presenta e per questo motivo è fondamentale adottare dei criteri di valutazione per stabilire l'entità del rischio relativo. Poiché il rischio di ictus varia con l’età, il sesso e la presenza di co-morbidità, vengono utilizzati gli score di rischio per quantizzarlo.
La diagnosi di fibrillazione atriale, prima che si verifichino le complicanze, è riconosciuta come una priorità per la prevenzione dell’ ictus.

Recenti dati raccolti in studi epidemiologici su pazienti ricoverati con dispositivi impiantati, e attraverso elettrocardiogramma Holter sono a sostegno della ipotesi che anche brevi episodi silenti di fibrillazione atriale esprimono un aumento del rischio di ictus.

Fino alla scoperta dei nuovi anticoagulanti orali, gli unici farmaci disponibili per il trattamento anticoagulante dei pazienti con fibrillazione atriale erano gli antagonisti della vitamina K, che, nonostante le limitazioni connesse alla farmacocinetica, biodisponibilità e mantenimento del range terapeutico, continuano a rappresentare i farmaci di riferimento nella prevenzione del rischio trombo-embolico nei pazienti con fibrillazione atriale.
Tuttavia, in una certa percentuale di pazienti con fibrillazione atriale non-valvolare, al posto degli antagonisti della vitamina K, è prescritta l’Acido Acetilsalicilico ( ASA; Aspirina ).

La terapia anticoagulante costituisce il trattamento d’elezione nella prevenzione primaria e secondaria dell’ictus nei pazienti con fibrillazione atriale e della embolia polmonare in pazienti con trombosi venosa.

Gli anticoagulanti che da oltre mezzo secolo vengono utilizzati per la prevenzione o il trattamento delle malattie tromboemboliche sono i derivati cumarinici ( Warfarin [ Coumadin ] e Acenocumarolo ), che esercitano la loro attività anticoagulante inibendo la sintesi dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti ( II, VII, IX e X ) e delle proteine anticoagulanti C e S, mediante l'inibizione competitiva dell'enzima epossido-reduttasi.

L’efficacia degli anticoagulanti orali nella prevenzione di ictus e delle tromboembolie sistemiche nei pazienti con fibrillazione atriale è stata ampiamente dimostrata in importanti studi clinici di prevenzione primaria ( AFASAK, BAATAF, CAFA, SPAF I, SPINAF ) e secondaria ( EATF ): la riduzione del rischio di ictus ottenibile con la terapia anticoagulante a dosi adeguate ( range INR 2-3 ) è del 62%, con rischio emorragico associato complessivamente basso, inferiore all’1%; anche se è verosimile che nella pratica clinica quotidiana il rischio emorragico risulti significantemente maggiore dal momento che i pazienti inclusi negli studi erano rigorosamente selezionati e seguiti in modo molto ravvicinato. Questo bias di selezione può spiegare la bassa incidenza di emorragie in corso di terapia anticoagulante ( TAO ) riportata negli studi clinici.
Nei pazienti di età superiore ai 75 anni il rischio di emorragia, soprattutto cerebrale, in corso di terapia anticoagulante sembra essere più elevato ed è risultato dell'1.8% per anno nello studio SPAF II.

Diversi fattori influenzano il rischio di sanguinamenti. I cumarinici, infatti presentano l’inconveniente di una stretta finestra terapeutica tra efficacia anticoagulante e rischio emorragico; le evidenze riscontrate negli studi clinici hanno suggerito che essi sono inoltre gravati non solo da profonde differenze interindividuali della cinetica dovute a varianti genomiche degli enzimi metabolizzanti del sistema P450, soprattutto CYP2C9, ma anche da diversi fattori tra i quali l’età, l’indice di massa corporea ( BMI ), l'assunzione di vitamina K attraverso la dieta, la concomitante terapia farmacologica, i disordini della tiroide e della funzionalità epatica.
I pazienti che ne fanno uso sono perciò costretti a un monitoraggio laboratoristico regolare e sistematico per ridurre sia le complicanze emorragiche che quelle trombotiche; oltre che a limitazioni alimentari ed a rischi in caso di molti altri trattamenti farmacologici; ma nonostante queste cautele, il mantenimento dei valori di INR entro l’intervallo raccomandato ( 2-3 ) è ottenuto in poco più della metà dei casi.
E’ noto come un aumento del 10% del tempo al di fuori del range terapeutico comporti un incremento di mortalità pari al 29%, di ictus del 12% e una maggiore frequenza di ospedalizzazioni.

Allo scopo di superare gli ostacoli descritti con gli antagonisti della vitamina K, la ricerca farmacologica e clinica si è quindi indirizzata verso lo sviluppo e la verifica di nuovi anticoagulanti orali. ( Xagena2012 )

Fonte: AIFA, 2012

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